lunedì 10 febbraio 2020

420

L'asse del glifo nell'angolo polimero della grancassa mi deturpa il banco dove si divora il fascino esplodente del punto di ritorno. Mentre svezzo l'avvenire sui colli del bel canto, slego il branco a pettine sulla banchisa dove in fondo all'animo illude la spelonca. Damonax di pietra euganea dentro la palla di vetro accende la resistenza con un diabolico colpo di sotto ha ingrommato e cinge l'estate di Mercurio al fresco. Appoggiato al banco un raggio solare che lo trafigge da orecchio a orecchio Mylas converge alle nudità secolari articolate presso le mura di bolidi sussurri. Mi svesto di litanie e correggo l'amaro nel riflusso attacco il discorso sulle ali del ramarro pelle di pesca di passaggio. Il pesce luna fuoriesce dalla bocca di Skilmis schizza da apprendista provetto nella carne della pentola inox del forno a legna sebbene esso sia pesce dal colore vermiglio perde alcune piume acquistate al mercato dell'esofago. La metamorfosi del pesce è scritta sulle istruzioni che si usa per dare lo straccio a mobili e agli immobili. Actaeus sulle labbra ha il deposito di polvere di oro, parla poco non spreca energie, la nutria sotto il tavolo si prova le ali di cartone per il decollo notturno. Ci si sradica con garbo dedizione apostolica. Di solito la vivacità entra dalle finestre della città come adesso, mi rilasso l'asse del glifo ha campo aperto riassetto il banco dei segni. Carico il revolver sparo canzonette alla radio intercetto con l'occhio di gomma Mefisto col ratto sulla spalla fuma un sigaro di oppio a faccia in giù. Actaeus va per dirgli qualcosa, Mefisto lo sbaraglia con un acquisto pret a porter gli sgancia un bossolo da souvenir per la figlia. A preti fiscali rivolti a ovest Mylas la pulce addomesticata sul palmo gli offre un doppio rum sulla lingua ma non lo compiace essendo utile glomerulo al veicolo mensile.  Il ratto sussurra all'orecchio di Mefisto una parabola del Vangelo secondo Marco, egli attento ascolta: ma non si ferma. Sente odore dello jus soli della nutria.    

419

Tempro l'azimuth sistolico di mezzogiorno lo stempero nel pomeridiano a sfera lucida sensuale per batterla sui cento millimetri sino a raggiungere il tramonto presso la coperta del fiotto di sangue che mi converge nell'oltretomba. Dal piccione di carbone in volo il nastro mietuto in grani regge il vertice del vocalizzo, adombra le foglie di edera espansa in accordo con la curva del promontorio eleusino; da lì la frana vive sputa il fuoco germogliato dalle caverne. Pacifico e raggomitolato nel mestiere delle arti in tasca l'ofide si affila la coda a sonaglio. Borchiato in metallo e a onore delle Cicladi fuma il vizio si accentra integrato di servizi ingrato schiocco conterraneo l'infinito nessuno.     

418

Per due seni di sabbia raccolti nella tenda sotto il servizio albino, vengo inoltrato di continuo nel locale egemone di notti finte e conturbanti. Disteso nel protocollo svetto pendente in una rete impertinente, e omaggio a fiumi in orario il simmetrico dentro e fuori da schemi algebrici. Sono in un altro lessico. In un altro afflato. Dove la morte non esiste se non per caso asmatico e privo di sigle. L'edilizia sotto il bosco mi eccede e a volte nel carminio se letto sino all'alba muove il nuovo giorno. Qui le traversie sullo sterrato non raggiungono i personaggi inoculate dalle chitarre cosicché privi di inchiostro navigano nel morso da segugi inscatolati. Senza essenza stendo il dorso ribalto la cabina mi concedo un fulmine rosato colto in sosta, il quale profuma incenso nel ludico procedere.