La poltrona decaduta sul rantolo ingessato
Nel walzer di pedalate comuni, il rumore di monili appiedati tintinnò in balia dei venti; agitati dalle vetture che non videro. E non sentirono l'installazione d'una ciglia offesa e fissa, stazionare sotto l'occhio in vetro. Fuori dai fari. Fuori dall'udito. Fuori dai sensi. Nel luogo tetro, dove la campana ruotava nelle molteplici foglie di faggi, irraggiando l'eco visivo di ogni pupilla che circondasse il giardino. Senza mani. Eliminando ogni traccia di qualsiasi sede che fosse stampata sul bordo delle, maglie oppure aggrappata ai muri. A caratteri stradali d'argento e oro. La ragazza stava lì, all'angolo. Aspettando l'autobus, il quale transitò, fermandosi. Sullo specchietto retrovisore. Illuminando il corpo della donna che giaceva sul sedile della vettura, muovendo la propria voce. Chiamare muta, ciò che pareva la testa, o il cranio rivestito di pelle, nervi, vasi capillari, oppure capelli maschili. E nel farlo vide, i vasi dei garofani sul davanzale acconciati per le feste. Ancora lontane; come lontano era il tatuaggio sull'avanbraccio di chi vide nel passare camminando, ignaro. La donna scorse l'autobus sullo specchietto retrovisore illuminarle la coscienza oscurando: il cielo. Il quale dopo il suo passaggio ricomparve, ripristinando ogni prospettiva d'ombra e luce nel significato non più smemorato. E mosse gli occhi: la donna. Accostandosi al corpo dell'altra di donna, inanimata al proprio fianco. Con la voce; chiamandole il cranio la testa che conteneva materia grigia fuoriuscita. Parlandole con quello sguardo giovane e maturo. Alzò lo sguardo e di nuovo vide i garofani sul davanzale stare lì, immobili tranne quando la brezza li agitava con sonnolenza; e le feste sentirle lontano, e di fronte a quell'immagine sentì di essere spettinata, col cuore disordinato. Intorpidita.
Nessun commento:
Posta un commento