venerdì 27 dicembre 2013

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 La musica neo aritmetica sul pentagramma


La musica aritmetica si libera gouache sfiorando densa la schiuma, d'incesto d'un apocope al limone. In curva. Uscendo plurima di gran carriera dalle finestre sfarfallando infinitesimali tropici, aprendo in quell'uscire, lame per tagliar. L'acciaio di ogni portiera divaricata al fuso orario, messo in punto dall'elio a diatomee sulla parete dell'emisfero ghiacciato. In fronte. Che poggia il proprio selvatico plantare, sulla verticale di marmitte iperboree. Dalle volute fumanti, e intabarrate d'arance piramidali. Le quali salgono. Mosse dalla gravità. Sulla cucina elettrica intessuta di guano, a quintali e grondaie per chilometri. Al di sopra del ribollir d'acqua ragia. Scuotendo alberi di teste cittadine, scoppiando tortore che scivolano in tutta fretta impigliandosi nell'aria. Presso stelle del firmamento. A fuochi accesi. Che si librano a intermittenza di marroni al cielo. Roventi mine su palme di marines. Vivi. Con molluschi appesi al filo minerario. Falò di mimetica incolore tra le nebbie. A chiazze allineate nel disporsi a flebo, in quel frollare a nubi tutti i giorni. Che dal muretto rigonfiano d'iconostasi l'attenzione. Al gatto che paziente, balza mietendo il plumbeo scomparendo. A puzzle cromatico nel midollo del crinale. Di ogni schiena rivolta a individuarlo meglio. Aguzzando gli occhi verdi che son laggiù da tempo. Illuminati. Sotto l'eretico rollio di brezze a petali iperborei nel definir a pennellate i corpi. Pigmentati e viola, arcuati d'un pezzato canide col cranio ingioiellato, che insegue sull'altare  dimensionando il muso. Dagli amori che verranno. Sotto il colbacco, in pelo d'astrakan.

giovedì 26 dicembre 2013

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 Lo sberleffo decaduto a rate


Il mite ombrello di fusciacche con gli slip a bordo campa, sotto misura. Di reti enfiate, innodando il wiskey, riscaldando il fuoco dello spary. Disboscando gli alveari uno fianco all'altro, presso onde a grucce rotte che vibrando illuni nell'agganciarsi al verme sgocciolano. Ammoniaca. Raggomitolata sulla via, in mille voci abbottonate divenendo. Albina priva di parure o di collare. Schiacciate al cane da un segnale morso ripetutamente nel rimprovero. Di fulmini e resistenze presso lampade dal vertice vocale. Adiacenti ai fatti, nel ridestare nervature. Le quali ghiacciate. Giungono attirate in cerchio orientando. Il battito di mani per il rettore mite. Di modo che l'estate rimanga fuori, avvolta ad una sciarpa come fosse inverno. Negli occhi d'un avvoltoio il quale sul cornicione appollaiato, si rassegna nello spostarsi. E nello spogliarmi di ogni avere in quelle piume che batte argento volando via: orinando sul triangolo. Prima della lotta e nell'ultima, definendo. Il mondo a suoni uniati in uno sberleffo e poi morire. 

mercoledì 25 dicembre 2013

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 La colomba d'ulivo sanguinante


Dietro le quinte del preistorico appezzamento. Le lastre rivolte al guru di tutti i tempi. Sono colori luminosi, nei rosari al plasma. Che impattano. Disegnati sull'orlo a pizzi, fulgenti rosa. Nel carillon annesso che scoccando; frecce rivoltandosi di letto in letto; serve gli occhi numerosi a fiocchi, bruciacchiandoli; arsi, rinsecchendoli senza peli e senza acque. Abbronzate, rimuovendo vene: strappate. Dai naufragi. Fiacche di muscoli e carni che si denudano bianche, mimandosi a molteplici specchi. In equilibrio al vento, formando un manichino. Biondo e stinto, con la parrucca privata di furbizia, che va celando. Stupidità: frana di pietrisco cabrio e dal sorriso infagottato che rallentando. Ai margini; sulla cassa armonica. Ode. Lo sciabordio di scarpe al collo, che informano gli scacchi. Sulla scacchiera di metallo e rame, tingendosi di giallo e nero, tra tutti i frutti e prezzi. A flutti. Confondendosi rallentando. La telecamera di retromarcia, che nello svettare. La vedi piegata. Sui corpi minuti di pettirossi, che balzando di rami in rami; e sui rami si amano di cinguettii. Riversi a terra col rametto d'ulivo in bocca per i morti rinsecchiti. Animali. Che non fingono la realtà che non hanno. Travolti sullo sdraio da altri, cadaveri inerti dall'inerme ombra. Che in braccio all'onda sismica si riversa, su tutti gli alberi stempiati che nel boulevard reclamano, per voce contraffatta. I pappagalli in cellophan strampalato, recitanti  poesie dal percussivo riff; che svolazzano di anime avvinghiate ai campanili brulli. Cavalcando misssili terra cielo, trasportandosi all'inferno.         

sabato 21 dicembre 2013

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 Papillon et le scarabèe



La farfalla abbarbicata al ciglio del burrone mosse la filigrana in vetro delle ali scure scuotendole a fisarmonica stazionando nell'immediatezza; a precipitarsi sull'arancio umido del fondo del bicchiere, e dal fondo, presto ri-decollò; non immaginando di volare, nemmeno di lì a poco d'atterrare prossima al naso: naso d'ottone della lapide nell'angolo della strada, che mostrava in quel suo naso, d'essere il rubinetto col pulsante retro, il quale animava la pressione di uscita per riempir la pentola: dell'acqua con il riso; lo stesso riso lanciato agli sposi più avanti dove la farfalla non vedeva; nè vedeva come il ruscello giù dalla collina adempisse alla sua funzione abitando al mare, nello scivolare al suo passaggio tra le sabbie, il proprio flusso a dorso di coccodrillo, vestito cristallino di sinuosa limpidezza in quell'incontro con il mare immenso, che si distingueva nella fusione col ruscello per avere molteplici detriti: smerigli polverosi e luminescenti dai tratti minerali abbandonarsi annegando docili; e non lo avresti supposto, quanto freddo e allo stesso tempo temperato potesse essere l'acqua in quello scontro tra le correnti; presso il bosco fitto sul versante della radura con quella chierica verde circolare, punteggiata da un albero d'alto fusto in centro, e un altro ancora, qui e là sparsi, la cui coda di legno bruciato e annerita s'innalzava come a preghiera al cielo, sin sulla vetta arrotondata come un dorso d'asino, con una carreggiata che delineava il mezzo esatto nel farsi colonna vertebrale; e il ceppo di legno che si distingueva da lontano sulle sabbie come un trono su cui si fosse seduta ogni divinità ventosa che passasse di lì; con l'unghia di corteccia che indicando il mare e il cielo formava in quel trono lo schienale; e gli oggetti rigurgitati sulla battigia dove il morto in acqua aveva l'ovale illuminato se rivolto al sole e sulle spalle rivestite d'olio la giacca che galleggiava, al tramonto; con quella luce che serpeggiava costellazioni sull'acqua e trafiggeva ogni cosa allungando di quelle cose l'anima con l'ombra; da dove un coleottero forando il buio lo trapassasò, alzandosi in verticale così accendendosi all'occhio umano, e a Dio; vedendo boschi e il mare e gli sposi e la radura, indirizzandosi minuscolo in quel volo, dinnanzi ad un tavolino roteandoci sopra, e superandolo per poi alzarsi in quota di nuovo; non atterrando tra gli sposi e le innumerevoli teste degli invitati con il riso che ancora qualcuno lanciava; ma proseguendo il volo di centinaia di metri avanti, nell'entroterra,  atterrando sul naso d'ottone della lapide all'angolo della strada; dove la farfalla che muoveva a fisarmonica le ali: stava, respirando la sua solita vita; per il coleottero verde smeraldo e abbacinante che la vide da lassù, muoversi nelle ali come a chiamarlo con un cenno animale, egli atterrò poco distante da quella farfalla; e si mise a rovistare avanti e indietro per sapere che razza di posto fosse quel rubinetto a naso di ottone; e quella che si muoveva li in fondo, con quelle due cose sul dorso, e che lo stava guardando; si domandò: ...ma che vuole sta tipa... !?       

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 Imprimatur

Ascoltarono ignorando la superbia, disquisirsi risuonava schiava nell'affusolarsi imbrattata nel color della pomice affamata; staccava a morsi il pallore d'oro d'ogni diversità, e che l'ombra tenesse per cospargersi dall'effimero; da cui partivano frecce scoccate dal tripudio tronfio; nel lancio l'acqua formava lance accuminate alleate su cui scorrevano intrepidi in fila indiana; le perdite dell'inconscio al primo incrocio il semaforo lampeggiava d'ogni dubbio; appannato ad ore torbide corrispondenti ai lavoranti che sfilavano col fucile: chi a braccio e chi a tracolla allattando il lancio plurimo di sassi mimicamente lussati dai ripiegamenti in frasi; astrali abbrumate dai lavaggi d'intenti luridi; col pronome di Calliope. Uncinante negli spinaci conditi a cerchio col rametto di basilico sull'omero segmentato a fiore vascolare; ai piedi della montagna dispari colma nei dislivelli a fionda magnetica; che crogiolante di nevischio, nel groviglio di un abitato; si vide l'abitacolo ignaro salire e scendere indisturbato i gradini scorrazzando con un foulard in testa al motore coprendo il cofano con un drappo teso, e l'odore della luna che furoreggiava; sulla tangenziale in contromano accellerava una curva, per sbucare più avanti da un sentiero o mulattiera d'un emisfero scosso; e ripercorso dal filobus da cui si lanciavano martelli reticenti; nelle pozzanghere d'inteneriti fianchi. Renitenti a leve per alzare il mondo, ma con vele ricavate da un paio di remi d'acciaio, e la borsa colma di reni degli utenti incamminarsi su scale a chiocciola presso i punti cardinali;  affilati a disegni dal vapore acqueo; che salendo tracciava nella struttura il ponte frantumato. Con l'invitato in rame istoriato, dai canneti ripiegati dal rovescio; salutare per chi l'avesse riconosciuto, con quella mano di legno, e quella vera alzarsi e scomparire, col saluto di rimando. 



venerdì 6 dicembre 2013

31


 Repeat this year and which, in spite of myself


" Ripeterò l'anno tale e quale " disse al brusio dell'unghia, guardandosi le mani, innervate di scogliosi al cubo, affittuarie di capoversi alari; mai dome di assistenze con livrea certificata nell'hangar del sè, d'uno sconosciuto per caso sempre; coleottero sospinto dalle arie vibranti il tuono; agganciandolo all'epopea catarifrangente, accesa presso ogni liana in seta; che abbia la narice affamata dallo zolfo e vincoli, all'indagine della secolare quercia; di colore indemoniato e con l'impiantito verticale dove l'ulivo alto e frondoso in quelle sue movenze; in vasca sta sommerso in acque e porcellana pittandosi sul volto l'anima fumè del bagno; mentre asciugandosi dal mascara; con la scala ritta e obliqua al tetto, precipita nell'olfatto del canale audiovisivo navigando nella chiglia aerodinamica tra i marosi all'insù; mantenendo fermo il faro e con lo sguardo sulla sabbia; ìndice il rettifilo per governar la diocesi; la quale animata di crudeltà parla d'altro raspando la salita morbida, friabile, bagnata, infangando i fianchi gravidi mai mossi, delle maree contrarie; le quali pendono regine, dal corallo che cammina avanti privato della vista; col cane a fianco deambulante e ordinato sino al colore sobrio, il quale marchiato dalla croce rossa nell'ausilio, sniffa e vede addentando gli scalini pieni d'erba, nel muschio del tifone dichiarato morto, e rumoroso dall'unguento adamitico.

domenica 1 dicembre 2013

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 La Porziuncola


L'albero è incappottato sulla tela dell'ombrello sezionato. Tenuto in pugno dalla mano. Chiusa e dalle dita incurvate nello stringere il manico, col pomello. Poi l'avambraccio, il gomito. E nient'altro, oltre le nubi plumbee sul deserto, dipinto sulle innumerevoli fronti di facce dagli sparuti mezzi meccanici nel movimentare, terra e acque spruzzando. Il modo di deambulare del danaro, è corrotto dalle tubature d'aria verde. Sommessa, nel refolo azzimato e curvilineo di un piano; sul palmo della mano su cui si soffia il cero rosso. Unto e bisunto, dal fuoco che come un manganello respira i colpi addizionando le conchiglie ponendole sullo stiro asciuga, del banco d'ogni pegno. Impegnandosi, a correrre saltando le provincie, le regioni illuminando le corriere di giovani inerti. Con le facce appannate, dai finestrini imbambolati dallo stupore dal nugolo di api, fuoriuscire dalle natiche del manichino. Esposto in vetrina dai commercianti. Provenienti dalla danza notturna, ballando note sorde ad alto volume, e colorando. Pop. I sorrisi ignavi di ricchezza nascosta e povertà manifesta, strappando le pagine del Genesi e dell'Esodo tramutandole in velivoli infuocati di parole che volavano; sulle teste di chiunque abbia la sporta dell'eccesso, tra le mani.