mercoledì 30 ottobre 2013

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Ego veni ignem mittere terram ( sono venuto a portare il fuoco sulla terra )

Scalzo al limite dell'abbraccio recedo sul tiepido illetterato letto di spoglie. Chi governa l'occhio dal volto popolare ha l'ìnfinito buco che gli trapassa il nero del cranio. Dove l'aria crolla in una cascata la taurina spalla non supera di slancio l'economia ferma al dollaro. Presso il campanile dai denti rotti le gengive dai calzoni corti si asciugano illuni. Mi adagio sull'amaca, vedo il cielo, la corte, cortigiani, prostitute. La campana in bronzo incarna suoni né tristi né allegri. Origlio il divenire sulla groppa d'ogni nota veste la rondine in cui cade l'agonia del vortice. Stampo alla sommità dell'orrido il respiro glaciale del fango, se mi raggiunge il dito del comando, si atrofizza liberale. Gli scuri di baci e baci si schiudono sullo sguardo dalla finestra, alla chetichella m'inoltro nella poesia, il dolore in groppa mi affligge. Per ora resisto, poi vi condannerò a morte certa, con agonia inclusa nel pacchetto viaggio.   

domenica 27 ottobre 2013

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 Express


Il fuoco patì il freddo raggiungibile fischio dell'uomo binocolo al collo dell''orecchio fracassato. Sulla neve annerita scesa nello spettro d'un dio menomato. Con la polla di mercurio che piovve innaffiando e oscillando come un'arma sino ai denti, cariati. E finti delle ore di sterminio dal giocattolo di massa. Con l'ombrello aperto, multicolore nell'udire l'inverosimile in uno spiazzo diversificato. Dall'uguale ritmica  di una daga nel frastuono da cui zampilla l'amore d'oro. Di rubini incastonati e accesi nei torti luccicanti come un acquedotto disegnato. Sull'acqua scura allo sciogliersi delle rocce. In fila alle onde impetuose nella forza dell'occhio di smeraldo e ferro, mentre. Tu cammini sul mondo fermo dall'asprezza, fischio rannuvolato dalla lontananza, treno rinsecchito sopra i rami. Controversia di un'allodola che ode nel silenzio il proprio volo avvenuto con i sensi opposti, non addormentati sul guanciale. Evitando. D'intraprendere il tracciato dell'ansia libera, di colori e di esprimersi.    

sabato 5 ottobre 2013

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 La poltrona decaduta sul rantolo ingessato


Nel walzer di pedalate comuni, il rumore di monili appiedati tintinnò in balia dei venti; agitati dalle vetture che non videro. E non sentirono l'installazione d'una ciglia offesa e fissa, stazionare sotto l'occhio in vetro. Fuori dai fari. Fuori dall'udito. Fuori dai sensi. Nel luogo tetro, dove la campana ruotava nelle molteplici foglie di faggi, irraggiando l'eco visivo di ogni pupilla che circondasse il giardino. Senza mani. Eliminando ogni traccia di qualsiasi sede che fosse stampata sul bordo delle, maglie oppure aggrappata ai muri. A caratteri stradali d'argento e oro. La ragazza stava lì, all'angolo. Aspettando l'autobus, il quale transitò, fermandosi. Sullo specchietto retrovisore. Illuminando il corpo della donna che giaceva sul sedile della vettura, muovendo la propria voce. Chiamare muta, ciò che pareva la testa, o il cranio rivestito di pelle, nervi, vasi capillari, oppure capelli maschili. E nel farlo vide, i vasi dei garofani sul davanzale acconciati per le feste. Ancora lontane; come lontano era il tatuaggio sull'avanbraccio di chi vide nel passare camminando, ignaro. La donna scorse l'autobus sullo specchietto retrovisore illuminarle  la coscienza oscurando: il cielo. Il quale dopo il suo passaggio ricomparve, ripristinando ogni prospettiva d'ombra e luce nel significato non più smemorato. E mosse gli occhi: la donna. Accostandosi al corpo dell'altra di donna, inanimata al proprio fianco. Con la voce; chiamandole il cranio la testa che conteneva materia grigia fuoriuscita. Parlandole con quello sguardo giovane e maturo. Alzò lo sguardo e di nuovo vide i garofani sul davanzale stare lì, immobili tranne quando la brezza li agitava con sonnolenza; e le feste sentirle lontano, e di fronte a quell'immagine  sentì di essere spettinata, col cuore disordinato. Intorpidita.